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Agosto 2014

Di Fabio Paladini

In numerosi articoli su questa Rivista è stato trattato il tema della privacy a scuola evidenziandone le maggiori criticità e problematiche applicative. Oggetto del presente contributo è l'analisi della recente giurisprudenza in tema di risarcimento del danno in conseguenza di un illegittimo trattamento dei dati.

In giurisprudenza è stato affermato che il diritto alla riservatezza – il cui fondamento normativo va ravvisato, al di là della sussistenza di altre e più specifiche previsione, nell'art. 2 della Carta fondamentale – consiste nella tutela di situazioni e vicende di natura personale e familiare dalla conoscenza e curiosità pubblica, situazioni e vicende che soltanto il relativo protagonista può decidere di pubblicizzare ovvero di difendere da ogni ingerenza, sia pure realizzata con mezzi leciti e non implicante danno all'onore o alla reputazione o al decoro, che non trovi giustificazione nell'interesse pubblico alla divulgazione. (cfr. Corte di Cassazione, Sentenza 25 marzo 2003, n. 4366). Con la suddetta Sentenza la Corte aveva altresì precisato che la lesione del suddetto diritto è configurabile come illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c., al quale, peraltro, non consegue un'automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio – morale e/o patrimoniale – essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità e quale sia la difficoltà di provare tale entità. Detti principi sono stati recentemente ribaditi.

Esclusione di ogni risarcimento automatico conseguente ad un trattamento illecito di dati

La Corte di Cassazione civile, sez. III Civile, con la Sentenza n. 15240 del 3 luglio 2014, ha ribadito che nell'ipotesi di illecito trattamento dei dati personali, la lesione determina un illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c. al quale, tuttavia, non consegue un'automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio morale o patrimoniale essere comunque provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità ed a prescindere anche dalla difficoltà della relativa prova. Pertanto, anche l'accertamento dell'illegittimo trattamento di dati personali sensibili, quale danno-conseguenza e non già quale danno-evento, non dà luogo ad automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio morale o patrimoniale essere comunque provato secondo le regole ordinarie. Nel caso di specie, con ricorso ex art. 152 del D.Lgs. n. 196 del 2003, una assistente di Polizia penitenziaria aveva chiesto al Tribunale l'accertamento della illegittimità del trattamento di alcuni suoi dati sanitari compiuto dal Ministero della Giustizia.

Il Tribunale adito, con sentenza, pur accertando che il trattamento dei dati sanitari compiuti dalla Amministrazione non era conforme alle previsioni degli artt. 4 e 20 del citato D.Lgs. n. 196 del 2003 (c.d. Codice Privacy) aveva comunque respinto la domanda di risarcimento danni rilevando che la ricorrente non aveva fornito alcuna prova sul punto, compensando poi le spese di lite. La Suprema Corte, come detto sopra, ha confermato la sentenza impugnata.

Tra l'altro, la Corte ha ulteriormente precisato che, neppure identificando il danno in questione in termini di danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, potrebbe giungersi a conclusioni diverse, in quanto, sul punto, le Sezioni Unite (Sent. 26972/2008), nell'ammettere la risarcibilità della lesione di siffatti diritti, hanno comunque contestualmente riconosciuto che l'esistenza del relativo danno deve comunque essere provata dal danneggiato. Infatti, le Sezioni Unite hanno affermato che il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato. Conclusivamente il titolare dei dati sensibili illegittimamente trattati non ha diritto al ristoro automaticamente ma dovrà provare l’effettivo pregiudizio sofferto sia per quanto concerne i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali.

Ulteriore giurisprudenza in argomento

Successivamente la Corte di Cassazione, con Sentenza n. 16133 del 15 luglio 2014, ha introdotto dei limiti all'applicazione del secondo comma dell'art 15 del Codice Privacy. L'art. 15 citato prescrive che chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile. Con la Sentenza citata la Corte ha affermato che il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 non si sottrae alla verifica di “gravità della lesione” (concernente il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali) e di “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), che, in linea generale, discende all' applicazione dell'art. 2059 cod. civ. nelle ipotesi di pregiudizio inferto ai diritti inviolabili previsti in Costituzione. Pertanto, in caso di trattamento illecito di dati personali, il risarcimento del danno non patrimoniale, previsto dall’art. 15 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, non si sottrae ad un accertamento da parte del giudice – da compiersi con riferimento alla concretezza della vicenda sottoposta alla sua cognizione e non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – destinato ad investire i profili della “gravità della lesione” inferta e della “serietà del danno” da essa derivante.

In definitiva la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi) (cfr anche Cass. n. 8703 del 2009). L'accertamento della gravità della lesione e della serietà del danno spetta al giudice, in forza del “parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico” (Cass., sez. un., n. 26972 del 2008).

Dunque, rappresenta accertamento di fatto ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l'indagine proiettarsi sugli aspetti contingenti dell'offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi. È, in sostanza, accertamento di fatto che, naturalmente, richiede la previa allegazione di parte degli elementi fattuali atti ad innescarlo, sui quali incentrare il thema probandum, alla cui definizione possono ben concorrere le presunzioni di cui all'art. 2727 cod. civ.

La giustificazione della così modulata “soglia di risarcibilità” del danno non patrimoniale, fatta propria dalla Cassazione e ribadita nelle recenti sentenze in commento, è dettata dall'esigenza di arginare la “proliferazione delle c.d. liti bagatellari”. Infine, sempre in argomento, ricordiamo la Sentenza n. 7901 del 4 aprile 2014 con la quale la Cassazione ha affermato che in caso di trattamento inesatto dei dati personali, la parte lesa non può limitarsi a richiamare la fattispecie normativa per richiedere un risarcimento da danno patrimoniale, ma deve allegare i danni subiti, nel caso in cui la rettificazione o la cancellazione dell'informazione errata non siano sufficienti a rimuovere il pregiudizio subito.

 

Pubblicata il 04 settembre 2014

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