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Di Massimo Spinelli - Dirigente Scolastico

Dopo aver analizzato, nel precedente numero della rivista, il tema centrale dei docenti e delle prospettive di riforma legate alla loro formazione, al reclutamento, alla carriera e alla formazione in servizio, dedicheremo il presente contributo alle proposte che il documento governativo formula nel merito dell’evoluzione dei curricoli scolastici, rapportandola alle esigenze che la società esprime e al complesso problema della necessità di contrastare la crescente disoccupazione giovanile.

Premessa

I temi trattati nel documento "La Buona Scuola" hanno un carattere strategico, soprattutto per un paese come il nostro che, oltre a soffrire le conseguenze di una crisi economica di dimensioni e durata impressionanti, deve anche pagare lo scotto di un pesante indebitamento pubblico, che erode annualmente un’incredibile quantità di risorse, sottraendole agli investimenti e allo sviluppo, in un circolo vizioso che produce spinte recessive e ricade in termini preoccupanti sui livelli occupazionali e sulla capacità delle imprese di stare sul mercato. La lettura de La Buona Scuola, per quanto attenta e approfondita, lascia comunque l’impressione che il tema del rapporto tra formazione scolastica e mondo del lavoro resti in secondo piano, tale d’altra parte è l’enfasi e la corposità con cui viene trattata la “questione docenti” che le materie che seguono i primi due capitoli del documento rischiano di sfumare in una serie di buoni propositi posti a contorno della pietanza principale, non escluso il capitolo 5, dedicato interamente al rapporto tra la formazione fornita dalla scuola e le potenzialità occupazionali.

La zavorra dei pregiudizi ideologici

Basta una rapida navigazione telematica nei siti più o meno specializzati, sindacali e studenteschi, per rendersi conto di quale sia l’impatto di un’opposizione pregiudiziale al documento governativo, non limitata ai temi sensibili che vanno ad intaccare sistemi consolidati di tutele e di garanzie dei docenti (del personale ATA il documento stranamente non tiene conto!), facendo scattare reazioni abbastanza prevedibili, ma estesa in molti casi alla visione complessiva che ispira l’intero documento. Se dovessimo cogliere il senso profondo dell’antagonismo studentesco (ma non solo), che si è risvegliato anche in occasione della consultazione lanciata dal governo e che ha già animato negli ultimi giorni le strade e le piazze di molte città, dovremmo concludere che in tutte le occasioni in cui si concretizzano ipotesi di cambiamento più o meno significativo scatta in automatico una lettura pregiudiziale della proposta, in termini di latente “privatizzazione” del servizio scolastico e di “deriva aziendalistica”, che blocca qualunque ipotesi di confronto sui contenuti libero da schematizzazioni e pregiudizi. Al di là delle forme più becere, esiste comunque nelle scuole e intorno alle scuole (anche in ambito accademico) una cultura della separazione tra scuola ed extrascuola, che teorizza come errore la visione della studio come funzionale alle successive opportunità di impiego e di lavoro, contrapponendole il valore in sé della formazione. È sulla base di tali postulati che si arriva a contestare alla radice affermazioni come quella contenuta proprio nel capitolo quinto del documento governativo, laddove si dice che “Dobbiamo rendere la scuola la più efficace politica strutturale a nostra disposizione contro la disoccupazione, rispondendo all’urgenza e dando prospettiva allo stesso tempo”. Ci troviamo, pertanto, a confrontarci con il paradosso di una proposta che si dichiara ispirata alla volontà di aprire spiragli per il futuro dei giovani e che trova proprio nelle organizzazioni studentesche la più frontale e ferma contestazione. Sarebbe interessante, in proposito, interrogarsi sui processi di formazione e di maturazione di tali posizioni e capire se anche la scuola abbia la sua parte di responsabilità. Questa doverosa precisazione non sposta comunque il problema: si ripete l’ennesima replica di un’opposizione che si autodefinisce “sociale” e i cui propositi si identificano, per una strana eterogenesi dei fini, nella volontà di stroncare ogni proposta di cambiamento e di ergersi a difensori di un ossimoro: l’immobilismo militante.

Le nuove tecnologie come fattore di cambiamento

Ripensare ciò che s’impara a scuola richiede una prima riflessione sulla centralità delle nuove tecnologie applicate alla didattica e sul valore della connessione alla rete telematica. Non si tratta di un tema nuovo, ma è certamente nuova la modalità di inquadrare il problema: “per liberare la scuola ci vuole più connessione”. Qualcuno potrà pensare che siamo nel campo delle frasi ad effetto, tipiche dello stile comunicativo di questo governo, come quando, in un altro passo del paragrafo 3.5, si dichiara che “Non saremo soddisfatti fino a quando l’ultima scuola dell’ultimo comune d’Italia non avrà banda larga veloce, wi-fi programmabile per classe… e un numero di dispositivi mobili per la didattica…”. Ma perché non dovremmo condividere questa prospettiva e chiedere che si realizzi? Perché non dovremmo augurarci che le scuole diventino “il filo forte di un tessuto sociale da rammendare” e che possano moltiplicarsi le esperienze di scuole aperte al territorio, disponibili per un’utenza adulta, luoghi dove sia possibile sviluppare una progettualità aperta ai problemi del territorio? È vero, già adesso non mancano esperienze significative in questo campo, ma è lecito anche chiedersi quanto queste incidano sulla capacità complessiva del sistema scolastico di “aprirsi” in termini di sussidiarietà orizzontale alla comunità sociale di riferimento, al mondo del lavoro, alle esperienze del terzo settore.

Cultura in corpore sano

Al capitolo 4 incontriamo un altro titolo ad effetto, dietro al quale si cela la chiara volontà di ricalibrare il curricolo scolastico ritagliando al suo interno spazi per la conoscenza dell’arte e della cultura, per la pratica della musica, per la pratica motoria e sportiva. In sé la proposta potrebbe apparire accattivante, anche se l’enfasi potrebbe indurre un non addetto ai lavori a pensare che tali discipline siano assenti dai curricoli scolastici vigenti, per di più recentemente ridisegnati attraverso la riforma degli ordinamenti, le Indicazioni per il curricolo, le Linee-Guida Nazionali. Non è così e quindi è lecito presupporre che il decisore politico intenda potenziare il carico orario di queste discipline. Ma a questo punto sarebbe necessario spiegare se in prospettiva l’intenzione sia quella di rimettere mano agli ordinamenti scolastici e ai quadri orari riformati nel 2009 e nel 2010, o se invece si intende soltanto ricalibrare il curricolo esistente. Nel primo caso l’impresa sarebbe temeraria, dal momento che sappiamo bene quanta fatica sia costata la riforma degli ordinamenti della scuola secondaria di secondo grado e quante resistenze sia stato necessario superare. Riaprire il problema presterebbe il fianco ad un probabile ritorno all’antico, troppo dissonante con l’intenzione politica di proiettare la scuola nel futuro. Nel secondo caso occorrerebbe chiarire quali aree disciplinari dovrebbero subire una contrazione oraria per far posto a quelle potenziate. È chiaro che un documento d’indirizzo non possa dare tutte le risposte, ma il problema resta e non è di poco conto. Una seconda obiezione sorge spontanea: siamo proprio sicuri che l’impianto disciplinare della scuola italiana abbia bisogno soltanto di un’iniezione di “cultura in corpore sano”? O meglio, la decisione di modificare o integrare il curricolo scolastico compete al decisore politico o non sarebbe più logico adottare anche nel nostro paese, così come avviene nella stragrande maggioranza dei sistemi scolastici europei, un curricolo composta da uno “zoccolo” nazionale e da discipline individuate a livello scolastico anche in rapporto alle esigenze espresse dal contesto e alla domanda del mercato del lavoro? All’eventuale obiezione che la quota di autonomia del curricolo era prevista già nel DPR 275/1999 basterebbe rispondere che nessuna flessibilità del curricolo sarà effettivamente possibile finché sarà considerata intangibile la rigidità dell’organico docenti. Il ragionamento porta, in questo caso come per altri aspetti del documento governativo, al tema cruciale dell’autonomia scolastica, uno dei veri nodi irrisolti de La Buona Scuola, sul quale inevitabilmente la consultazione pubblica richiederà un supplemento di riflessione e di volontà di cambiamento, almeno pari a quella che anima i primi due capitoli.

Le proposte concrete

Per quanto riguarda l’educazione musicale il documento prevede due ore settimanali nelle classi 4^ e 5^ della scuola primaria. L’insegnamento sarà assegnato ai docenti provenienti dalle GAE, ma si prevede anche una mobilitazione generale dei conservatori, degli enti lirici e dei corpi bandistici civili e militari che consenta di puntare soprattutto al potenziamento della pratica strumentale. Il rafforzamento dello studio della storia dell’arte e del disegno interesserà invece il biennio dei licei e degli istituti turistici, nei quali gli ordinamenti scolastici hanno collocato questo insegnamento soltanto nel triennio. Anche nel caso di questa innovazione si farà ricorso alle competenze professionali già presenti all’interno delle GAE. L’educazione motoria e lo sport a scuola saranno introdotti in particolare (e quindi si suppone non esclusivamente) nella scuola primaria. All’innovazione si attribuisce un valore sociale (contrastare il bullismo e la violenza, promuovere una crescita sana ed equilibrata), senza dimenticare la necessità di contrastare il fenomeno dell’obesità infantile. L’alto numero di docenti di educazione fisica presenti nelle GAE permetterà di introdurre un’ora a settimana nelle classi dalla 2^ alla 5^ della scuola primaria. Le novità in campo disciplinare non finiscono qui. Infatti il paragrafo 4.2 del documento affronta il tema delle nuove alfabetizzazioni che l’evoluzione sociale e la stessa globalizzazione stanno imponendo. Si parte dalla necessità di imprimere un forte impulso alla padronanza delle lingue straniere, che deve partire dalla scuola dell’infanzia e richiede che si diffonda progressivamente la metodologia CLIL (oggi limitata al triennio dei licei linguistici e al 5° anno degli altri licei e degli istituti tecnici). La proposta governativa prevede un’espansione dell’insegnamento in lingua straniera di discipline non linguistiche nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, attraverso un potenziamento del Piano nazionale di formazione linguistica dei docenti. Il percorso di studi dovrà portare almeno ad un apprendimento di livello B2. Stesso discorso per l’alfabetizzazione digitale, il cui obiettivo è quello di portare i ragazzi a non essere soltanto consumatori di tecnologie, ma a padroneggiarle in termini progettuali, per sviluppare contenuti e metodi e per risolvere i problemi che la società moderna pone. La prospettiva consiste nell’introdurre la programmazione informatica a partire dalla scuola primaria, nel lanciare in Italia l’iniziativa Code.org, nell’attivare per la scuola secondaria un programma per Digital Makers. Nella scuola secondaria di primo grado saranno rafforzate le ore di Tecnologia e di Cittadinanza e Costituzione; nei licei scientifici e negli istituti tecnici e professionali quelle di Informatica.

Un’analoga strategia di contrasto il documento la indirizza nei confronti dell’analfabetismo finanziario e sulle diffuse difficoltà di comprensione dei meccanismi economici. A tal proposito si ipotizza una modifica ordinamentale che consenta di introdurre le discipline economiche all’interno del curricolo dei licei scientifico e classico, nella prospettiva di estendere l’innovazione a tutte le scuole di secondo grado, anche in questo caso ricorrendo all’utilizzo dei docenti delle GAE di classi di concorso affini all’economia. Soltanto a questo punto, ma in modo marginale, il documento si preoccupa di richiamare il dovere degli istituti di modulare la loro offerta formativa, anche attraverso la scelta di materie opzionali, superando le rigidità del contratto e di un sistema troppo legato alle cattedre. Un’impostazione pienamente condivisibile, ma che avrebbe dovuto avere tutt’altro risalto e costituire non la conclusione ma la premessa di ogni ripensamento di ciò che si impara a scuola. L’affermazione che la vera autonomia deve ripartire dalla riqualificazione dell’offerta formativa, dalla disponibilità di un organico funzionale, da una maggiore mobilità dei docenti, da una nuova gestione collegiale della scuola e dalla disponibilità di risorse certe, appartiene alla categoria delle buone intenzioni, da sempre richiamata nei documenti programmatici che si sono succeduti nel tempo e da sempre sconfessata quando si tratta di impattare incrostazioni inveterate e sistemi di interessi radicati e consolidati. La proposta governativa, per quanto coraggiosa, non arriva ad ipotizzare l’unico vero cambiamento che rovescerebbe la logica di funzionamento del sistema scolastico nazionale e cioè il trasferimento alle scuole, o alle reti di scuole, della competenza a gestire il reclutamento del personale docente. La “chiamata”, citata nei primi due capitoli, rappresenta una novità importante, ma resta confinata all’organico aggiuntivo, facendo chiaramente intendere che il degno proposito di consentire ad ogni scuola di “schierare in campo la migliore squadra possibile” (per usare le stesse parole del documento) non rientra al momento nelle vere intenzioni del decisore politico.

Formazione come antidoto alla disoccupazione

Va riconosciuto, come già ricordato più sopra, che l’iniziativa governativa inscrive chiaramente la proposta sulla scuola all’interno di una più complessiva strategia di contrasto alla crisi economica e alla disoccupazione giovanile. La convinzione è che la scuola possa dare un forte contributo in tal senso: raccordando strettamente scopi e metodi della scuola stessa con il mondo del lavoro e dell’impresa, affiancando al sapere il saper fare, superando il disallineamento tra le competenze che il mondo esterno chiede alla scuola e quelle che la scuola effettivamente si propone di formare. La prospettiva delineata prevede che gli studenti di tutti gli istituti secondari di secondo grado possano svolgere percorsi formativi in realtà lavorative aziendali, sia pubbliche che private. Le modalità potranno essere diverse, anche per rispondere alle esigenze dei ragazzi. La prima tipologia è costituita dall’Alternanza scuola-lavoro, da rendere obbligatoria negli ultimi tre anni degli Istituti Tecnici e da estendere di un anno negli Istituti Professionali, prevedendo che il monte ore dei percorsi sia di almeno 200 ore annue. La seconda tipologia è quella dell’Impresa didattica e riguarda gli istituti di istruzione superiore, e di istruzione e formazione professionale, i quali possono commercializzare beni o servizi prodotti o svolgere attività di “impresa formativa strumentale”, utilizzando i ricavi per investimenti a vantaggio dell’attività didattica. La terza tipologia è la Bottega scuola, con la quale si intende disseminare (specialmente al Centro-Sud) esperienze di inserimento degli studenti in contesti imprenditoriali legati all’artigianato e coinvolgere anche le imprese di minori dimensioni con la finalità di tramandare i “mestieri d’arte”. La quarta ed ultima tipologia è l’apprendistato sperimentale, che ha lo scopo di diffondere il programma sperimentale di apprendistato negli ultimi due anni della scuola superiore attraverso protocolli ad hoc.

Nei paragrafi successivi il discorso si allarga all’esigenza di valorizzare il ricorso alla didattica laboratoriale, promuovendo i laboratori scolastici come “palestre di innovazione, legate allo stimolo delle capacità creative e di problem solving degli studenti”. Né manca un riferimento ai Poli tecnico-professionali e agli ITS, la cui crescente diffusione sul territorio sta consolidando la presenza e la costituzione di Fondazioni, aperte alla partecipazione degli istituti scolastici, delle imprese, delle università, delle associazioni professionali e veri laboratori di collaborazione interistituzionale e sociale. Non mancano, dunque, all’interno de La Buona Scuola né una vision complessiva fondata su concrete prospettive di cambiamento, né proposte capaci di innescare una riflessione complessiva che investe tanto i contenuti quanto la funzione stessa del sistema scolastico e formativo. Sappiamo, però, che il documento dovrà passare il filtro di una consultazione di non facile gestione, data la sua complessità, e superare i contraccolpi di una resistenza culturale e sociale che si sta aggregando all’interno e all’esterno delle scuole. Occorrerà pertanto seguire con attenzione gli sviluppi della situazione, come occorrerà attendere i riflessi che la proposta governativa necessariamente dovrà avere sul piano legislativo e su quello contrattuale. Soltanto allora saremo in grado di comprendere se avrà avuto la meglio l’ottimismo della volontà o il pessimismo delle convenienze.

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicata il 05 novembre 2014

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