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di Massimo Spinelli - Dirigente Scolastico

Il governo, con un’iniziativa personale del Presidente del Consiglio, ha lanciato la proposta politica de “La Buona Scuola”, attraverso la procedura atipica del lancio di un documento d’intenti e dell’apertura di una consultazione telematica che dovrebbe mettere il decisore politico nelle condizioni di fare le scelte conseguenti sul piano della trasformazione della proposta in atti legislativi. La strategia seguita rientra nello stile comunicativo adottato dal governo in carica; enfatizza il momento del confronto con tutti i cittadini (bypassando, di fatto, quello con le parti sociali!); carica di signifi cati generali il tema della scuola e la necessità di una sua forte innovazione; chiama a raccolta l’universo trasversale degli innovatori affi nché concorrano a sostenere la proposta. Si tratta sicuramente di una novità, anche di rilievo, dal momento che le politiche scolastiche sono spesso rimaste ai margini del confronto politico. Ma viene anche da pensare che la delicatezza dei temi affrontati abbia indotto il governo a procedere con i piedi di piombo, in modo da ammortizzare attraverso la consultazione i contraccolpi di una proposta che mette a dura prova alcuni tabù amorevolmente coltivati da un mondo scolastico rivelatosi spesso poco incline al cambiamento e facilmente trascinabile in azioni di protesta e di rigetto di novità considerate scomode.

La centralità della questione docenti

La Buona Scuola è articolata in sei capitoli, riformulati alla fi ne del documento in 12 proposte, ma fi n dalla prima lettura è facile capire che a farla da padrone è il tema dei docenti, trasversale all’intera proposta ma condensato soprattutto nei primi due capitoli. Tale connotazione non meraviglia più di tanto, soprattutto se si pensa a quanto infl uisca sulla “bontà” di una scuola la qualità e la professionalità di chi è chiamato in prima persona a gestire la relazione educativa. Ma l’enfasi con cui vengono affrontati il tema della situazione degli organici e la piaga storica del precariato e la rapidità con cui si arriva alla conclusione che occorre stabilizzare nei ruoli 148.000 precari, ai quali aggiungere altri 40.000 docenti, selezionati attraverso un nuovo concorso, fanno nascere il fondato sospetto che la scelta in questione, più che rispondere ad una seria proiezione del fabbisogno di docenti nel prossimo futuro voglia anticipare e scongiurare le prossime conseguenze derivanti dalla procedura d’infrazione per la non corretta applicazione della Direttiva 1990/70 avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia, per altro citata al Paragrafo 1.6 del documento. Ciò non signifi ca, sia ben chiaro, che non sia da condividere l’idea di risolvere la spinosa questione del precariato e l’attuale medioevale regolamento delle supplenze, né che la proposta di istituire un organico funzionale aggiuntivo per le scuole primarie e un organico dell’autonomia aggiuntivo per le scuole secondarie di primo e secondo grado non meriti di essere sostenuta.

Ma non può sfuggire ad un attento osservatore l’inversione logica delle operazioni: è chiaro che i 148.000 precari saranno assunti al primo settembre 2015 e a seguire i restanti 40.000 vincitori del nuovo concorso, meno chiara è quale sarà la loro utilizzazione effettiva e i vantaggi che ne deriveranno alle scuole (per altro sempre richiamate come reti di scuole). In una logica di lineare pianifi cazione strategica prima vengono gli obiettivi e poi la quantifi - cazione delle risorse sia umane che fi nanziarie necessarie a realizzarli. L’inversione della logica avvalora il sospetto che si sia voluto scongiurare il rischio connesso alla procedura d’infrazione, mentre gli scopi di questa straordinaria stabilizzazione del personale precario, per quanto argomentati sotto il profi lo dell’arricchimento dell’offerta formativa e dell’assorbimento del problema delle supplenze, resta indefi nito nelle modalità operative che sicuramente richiederanno un passaggio e una traduzione sul terreno contrattuale.

Ma una scelta di tale portata e, potremmo aggiungere, anche così impegnativa sul piano dei costi economici, non poteva essere adottata senza contropartite, e qui cominciano i veri problemi che renderanno parecchio tormentato il percorso della consultazione e la defi nizione della proposta in sede legislativa.

Accantonata la proposta di una maggiore estensione/flessibilizzazione dell’orario di lavoro dei docenti, di cui si è ampiamente discusso nel corso dell’estate, si è optato per una soluzione che mette mano ancora una volta al sistema di reclutamento dei futuri docenti - uno dei settori nei quali nell’ultimo ventennio più si è fatto e disfatto, mai arrivando ad una stabilizzazione delle procedure – e che introduce una particolare forma di progressione economica – abbastanza impropriamente defi nita “carriera” – fondata non più sull’anzianità di servizio ma sui cosiddetti scatti di competenza, acquisibili attraverso crediti didattici, formativi e professionali. Si tratta di novità di rilievo e di forte impatto, non a caso immediatamente prese di mira dai cultori dell’immobilismo e dei diritti acquisiti, che meritano dunque un adeguato approfondimento.

Quale ruolo per le Istituzioni Scolastiche?

Alla chiarezza circa l’entità delle prossime assunzioni non corrisponde, purtroppo, altrettanta linearità circa il ruolo che in questa gigantesca operazione sarà riservato alle istituzioni scolastiche autonome. Il principio generale e dichiarato secondo il quale “ogni scuola deve poter schierare la migliore squadra possibile” resta un auspicio generoso ma pur sempre volatile. La cosiddetta “chiamata”, a cui il documento fa riferimento, rimane confi nata nell’ambito dell’organico aggiuntivo e non di quello ordinario, perché? Se alla scuola viene riservato soltanto il compito di scegliere chi deve stare in panchina o entrare in campo negli ultimi cinque minuti della partita non sarà mai possibile schierare la squadra migliore. Il problema va assunto in tutta la sua centralità ed è direttamente connesso con il modello di autonomia scolastica che si intende sostenere ed implementare. Va infatti rilevata una contraddizione di fondo tra un impianto con una forte impronta dirigistica (assunzioni, nuove discipline, registro nazionale dei docenti, introduzione del coding,...) e il proposito perentoriamente affermato nell’introduzione al capitolo 3 di “realizzare pienamente l’autonomia”.

Se è vero, come viene ricordato, che non c’è vera autonomia senza responsabilità, bisogna avere il coraggio di arrivare alla logica conseguenza che è illusorio considerare le scuole e i dirigenti scolastici responsabili degli esiti del servizio se tutti gli elementi che concorrono a determinare la qualità di quegli esiti sfuggono al loro controllo e seguono logiche incoerenti con la valorizzazione della professionalità e con il riconoscimento dell’impegno e del merito. È facilmente prevedibile che la proposta della “chiamata” sarà oggetto di fuoco incrociato; ma è del tutto evidente che sull’esatta portata di questo passaggio il governo si giocherà una parte consistente della sua credibilità riformatrice.

La proposta sul reclutamento

Abbiamo già detto della prospettiva del bando di un nuovo concorso per quarantamila cattedre. Il bando sarà pubblicato nel 2015 e interesserà il triennio 2016/19; sarà riservato a tutti coloro che negli ultimi anni hanno conseguito l’abilitazione (compresi coloro che stanno seguendo i percorsi TFA), con prevista immissione nei ruoli sulla base di tre tranche annuali. Rispetto allo strumento concorsuale il documento governativo ne prevede la conservazione con alcuni correttivi: minore peso ai titoli, maggiore peso a quelle che vengono chiamate capacità “pratiche” d’insegnamento (defi nizione che non ci appare del tutto felice, anche se ne comprendiamo il senso, perché una buona pratica discende sempre da una buona teoria). Inoltre è prevista una graduatoria di merito nazionale, anche se potranno essere espresse preferenze territoriali, senza però il vincolo della dimensione provinciale. Questo quanto previsto al paragrafo 1.4, ma al successivo paragrafo 1.8 si torna sul tema del reclutamento per delineare il nuovo modello selettivo.

La proposta parte da una forte rivalutazione dell’abilitazione, che costituisce requisito essenziale per partecipare ai futuri concorsi. L’abilitazione si acquisisce attraverso il momento della formazione universitaria e un semestre di tirocinio a scuola. Il triennio base di formazione universitaria sarà seguito da un biennio di specializzazione a numero chiuso, cui si accederà per esami e titoli, centrato su corsi di didattica e di pedagogia. Coloro che avranno superato con successo il biennio potranno effettuare un tirocinio di sei mesi all’interno di un istituto scolastico, con l’assistenza di un docente-mentor, e parteciperanno ad alcune attività della scuola alla quale saranno assegnati. Al termine del semestre il tirocinante riceverà una valutazione da parte della scuola, in particolare da parte del docente-mentor e del dirigente scolastico, che se positiva gli consentirà di ottenere l’abilitazione. Il documento prevede anche la possibilità che l’aspirante docente, in caso di valutazione negativa, possa ripetere una seconda volta il tirocinio presso un diverso istituto.

Ma un eventuale secondo insuccesso precluderebbe in via defi nitiva la via della docenza. La procedura abilitante così delineata presenta almeno due elementi di forte innovazione rispetto ai modelli del passato: un chiaro investimento sul biennio universitario di specializzazione, dove la centratura non riguarda più le competenze disciplinari ma quelle attitudinali e psico-pedagogiche; il riconoscimento che soltanto l’esperienza diretta all’interno di una scuola permette di accertare la predisposizione di una persona a svolgere una professione di particolare complessità, che unisce competenze tecniche e relazionali, sensibilità umana e consapevolezza pedagogica.

L’affidare la responsabilità del “rilascio della patente” –  per riprendere la metafora usata nel documento – al docente che segue da vicino il tirocinante e al dirigente che gestisce e coordina il percorso di formazione in situazione costituisce una scelta lungimirante e fortemente innovativa, che bypassa e lascia alle spalle le vecchie e ineffi cienti liturgie dei corsi abilitanti, delle riserve, delle commissioni ad hoc e mette al centro la progettualità operativa delle scuole e le più alte professionalità che in esse operano. Gli abilitati che triennalmente parteciperanno ai concorsi nazionali saranno dunque portatori di una solida competenza professionale, costruita attraverso l’esperienza formativa del biennio universitario di specializzazione e verifi cata e validata nel corso e al termine del semestre di tirocinio, attraverso il contatto, diretto ma tutorato, con le aule scolastiche, con gli studenti, con i docenti già di ruolo.

La formazione in servizio

Tra le parole d’ordine che costellano il documento governativo va annoverata anche la formazione in servizio dei docenti, ritenuta indispensabile per la loro crescita personale e professionale, ma considerata anche uno strumento capace di favorire la loro mobilità professionale di carriera.

A dire il vero il termine “carriera” ricorre più volte all’interno dei sei capitoli del documento, ma del tutto impropriamente, dal momento che con esso si intendono semplicemente dei gradini retributivi collegati a scatti di competenza e non più di anzianità. Ma di questo parleremo più avanti. La formazione in servizio, dunque, viene assunta come elemento portante della professionalità docente “per poter offrire agli studenti una formazione adeguata alla società e al mercato del lavoro che dovranno affrontare”, una dichiarazione d’intenti condivisibile per quanto generale, che comunque metterà in allarme tutti coloro che rifi utano una visione “funzionalista” della scuola e che energicamente si contrappongono a quella che defi niscono la “deriva aziendalistica” delle politiche scolastiche.

La proposta mette in discussione i modelli tradizionali di formazione, la standardizzazione dei pacchetti e sollecita un intervento che riveda scopo e contenuti della formazione in servizio: prioritario è il miglioramento della qualità dei processi di insegnamento/ apprendimento, ma questo richiede che la formazione sia resa “realmente obbligatoria” e che sia legata ad un sistema di crediti formativi (CF) collegati alla possibilità di carriera (con i distinguo di cui sopra) e di conferimento di incarichi aggiuntivi. Circa il modello si opta chiaramente su quello “esperienziale”, da coltivare all’interno di una rete di formazione permanente dei docenti, un richiamo non dichiarato alle comunità di pratiche e alla learning organization, non particolarmente originale e soprattutto visto in contrapposizione ad approcci formativi a base teorica, secondo una logica un po’ troppo tranchante.

Le iniziative andranno gestite dai docenti stessi, anche attraverso l’intervento delle loro associazioni professionali, andranno individuati dei poli formativi regionali, dovranno essere valorizzati coloro che il documento defi nisce gli “innovatori naturali”, cioè docenti particolarmente competenti che, grazie alle opportunità offerte dall’organico aggiuntivo dell’autonomia, potranno essere individuati come referenti di settore e avranno la possibilità di dedicarsi alla formazione in servizio, acquisendo il diritto di essere premiati con una quota dei fondi per il miglioramento dell’offerta formativa. Non manca un esplicito richiamo alla necessità di uno specifi co investimento sulla formazione dei docenti al digitale, attraverso la valorizzazione dei molti progetti già in atto e incrementando le reti scolastiche già da anni coinvolte sul tema.

La “carriera” nella Buona Scuola

Nel dibattito sulla scuola da più parti e da diversi anni è stata spesso sollecitata l’introduzione di una carriera per la professione docente, anche sulla scorta di esperienze europee che da tempo hanno imboccato questa strada. Non sorprende, dunque, che la proposta governativa ponga particolare enfasi anche su quest’ulteriore parola d’ordine; ma è inevitabile rilevare che il contenuto della proposta punti esclusivamente ad introdurre un sistema di crediti di diversa natura che consentano di attribuire incrementi retributivi triennali in rapporto ai meriti certifi cati.

La differenza tra la proposta avanzata e una vera carriera professionale può apparire ininfl uente se la priorità è assegnata all’incremento retributivo; diventa invece sostanziale se la priorità diventa l’articolazione delle funzioni professionali. Esiste poi un secondo aspetto presente nella proposta che fa scattare più di una perplessità: gli incrementi retributivi da attribuire in rapporto ai meriti certifi cati possono essere riconosciuti al 66% dei docenti di ogni scuola; un tetto aritmetico probabilmente motivato dalla necessità di restituire il restante 33% delle risorse non utilizzate a tal fi ne alla stabilizzazione del MOF. Il meccanismo recupera la stessa logica della vecchia e sfortunata proposta Berlinguer, ma anche quella più recente delle fasce percentuali introdotte dal D.lgs. 150/2009, mai applicate nel comparto scuola per la mancata adozione del decreto che avrebbe dovuto disciplinare la loro applicazione.

La proposta poggia inoltre sulla visione un po’ “illuministica” secondo la quale i docenti, da un lato, saranno automaticamente portati ad arricchire il proprio portfolio professionale per rientrare nella quota premiata, dall’altro, saranno indotti a chiedere la mobilità da istituti a qualità medio-alta (dove più alto è il rischio di non rientrare nel 66%) verso gli istituti nei quali la media dei crediti è più bassa, dove il travaso di nuove professionalità svilupperebbe una virtuosa spirale di miglioramento. Stando ai primi commenti la proposta relativa a questa particolare fattispecie di carriera non avrà vita facile, un po’ per la debolezza dell’impianto – una carriera professionale è un’altra cosa – e molto per la messa in discussione del tabù degli scatti di anzianità.

Né va dimenticato che un cambiamento di paradigma, qual è quello avanzato nel documento governativo, deve accompagnarsi ad una revisione dello stato giuridico dei docenti – per altro richiamato esplicitamente nel paragrafo 2.3 – sulla quale da anni e anni di dibatte e ci si scontra senza arrivare al dunque e senza neanche dirimere la questione propedeutica della natura privatistica o pubblicistica della questione. Dobbiamo dunque prepararci ad assistere ad una nuova puntata della lunga storia dei tentativi susseguitisi nel tempo di far uscire i docenti dal “grigiore” dei trattamenti indifferenziati – come recita testualmente il documento – e di introdurre “elementi di differenziazione basati sul riconoscimento di impegno e meriti oltre che degli anni trascorsi dall’immissione in ruolo”.

L’esperienza ci induce ad essere cauti, perché anche le migliori intenzioni si sono infrante quasi sempre contro il muro di un egualitarismo duro e protervo che non tollera distinzioni di sorta. Non per questo tutti coloro che da anni si battono per trarre la scuola fuori dalla morta gora dei tatticismi e delle convenienze debbono dare per perso anche questo tentativo di dare una sterzata al corso delle politiche scolastiche. Al di là di una ridondanza retorica e della fumosità di alcuni passaggi la Buona Scuola è espressione di un ottimismo della volontà che potrebbe avere la meglio sul pessimismo della ragione e che merita di essere sostenuto, nella speranza – che ancora non è certezza – che la scuola italiana possa veramente cambiare verso.

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