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Marzo 2014

Giuseppina Filippelli e Sabato Simonetti

 

PARENTI E AFFINI NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

 

Evoluzione del concetto di famiglia

Alla base del modello costituzionale di famiglia vi fu la scelta fondamentale di inserire il tema della famiglia nella Costituzione, scelta che ha poi qualificato la successiva evoluzione legislativa in materia.

Non si trattava di una scelta scontata, poiché andava contro tutta la nostra tradizione costituzionale e legislativa. Lo Statuto Albertino (1848), che per oltre un secolo aveva rappresentato la costituzione del Regno d’Italia, aveva ignorato la famiglia. Lo Stato liberale, pur tutelando la famiglia l’aveva relegata nel codice civile (1865), ossia tra gli istituti e i rapporti di diritto privato, valorizzando di essa soprattutto quegli aspetti di natura patrimoniale, derivanti dal matrimonio, che segnarono il fondamento della famiglia borghese a partire dal Codice napoleonico, al quale si ispirarono le successive codificazioni europee dell’Ottocento. Il regime fascista aveva invece adottato una concezione pubblicistica e istituzionalista della famiglia ma asservendola ai fini propri dello Stato, arrivando al punto di prevedere il dovere dei genitori di educare e istruire la prole, oltre che in base ai “principi della morale”, in conformità al “sentimento nazionale fascista” (art. 147 del codice civile del 1942 nel testo originario).

Distaccandosi da tali precedenti, i nostri Costituenti intesero invece riconoscere la famiglia come una formazione sociale originaria e primigenia rispetto allo Stato, ma al tempo stesso, trattandone nell’ambito dei “Rapporti etico-sociali” (Titolo II, Prima parte) insieme alla scuola (artt. 33-34), ne riconobbero le fondamentali e peculiari funzioni per la promozione e lo sviluppo della persona umana.

 

La nozione di famiglia nella Costituzione

A differenza di altre Costituzioni contemporanee, la nostra àncora l’istituto familiare ad una sua precisa definizione (“società naturale fondata sul matrimonio”), che fu al centro di un ampio dibattito nel quale si confrontarono le principali  correnti culturali rappresentate in Assemblea. Esso vide, da un lato la rinuncia da parte cattolica alla costituzionalizzazione del principio dell’indissolubilità del matrimonio, dall’altro il superamento di alcune posizioni laiche, di matrice liberale e marxista, inizialmente contrarie o diffidenti rispetto all’inserimento della famiglia nel testo costituzionale e soprattutto ad una sua definizione, per la quale invece si batté la componente cattolica.

Alla fine si impose la convergenza su una formula di indubbia matrice meta-giuridica che, richiamando il concetto di natura ma evitando l’appiattimento sulla concezione canonistica, rifletteva un’idea di famiglia teorizzata ed accolta nella tradizione giusnaturalista (l’unione tra un uomo e una donna per la procreazione e l’educazione della prole) e protesa, in modo molto innovativo per l’epoca, all’affermazione di nuovi rapporti familiari informati al principio di eguaglianza tra i coniugi.

 

Nel suo complesso, quindi, l’art. 29 Cost. presenta una concezione della famiglia in cui la visione giusnaturalista si coniuga con il riconoscimento del carattere storico di taluni aspetti della sua disciplina. La famiglia è individuata come una comunità “naturale”, ossia dotata di una propria peculiare fisionomia di carattere meta-giuridico, radicata in una ben determinata concezione antropologica della persona e in una secolare tradizione storico-giuridica, e come tale sottratta al potere condizionante del legislatore, tenuto a rispettarne l’intima natura.

Al tempo stesso però, attraverso il richiamo all’istituto matrimoniale come suo fondamento normativo e al principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, all’epoca estraneo alla disciplina civilistica, si apriva uno spazio per l’intervento del legislatore al fine di introdurre all’interno di tale struttura originaria, e nel rispetto dei suoi caratteri essenziali, quei necessari adattamenti resi necessari dalla tutela dei diritti individuali all’interno delle formazioni sociali (cfr. art. 2 Cost.) e dall’evoluzione sociale e culturale del paese.

 

La parentela è un vincolo ed  è costituito da legami biologici, sociali, culturali e giuridici, tra le persone che hanno in comune uno stipite (art. 74 del Codice civile italiano).

La parentela si dice diretta o in linea retta quando le persone discendono l'una dall'altra (per esempio: padre e figlio), si dice indiretta o in linea collaterale quando le persone non discendono l'una dall'altra (per esempio: fratelli, cugini). ( Art. 75 C.C.)

La parentela può essere simbolica, ovvero determinate persone possono ritenersi consanguinee pur non essendolo: questo avviene per esempio tra membri di famiglie o gruppi (come classi e stirpi) legati da vincoli matrimoniali.

 

I Gradi della Parentela

I grado: linea retta ascendente di I grado (genitori) e linea retta discendente di I grado (figli);

II grado: linea retta ascendente di II grado (nonni), linea retta discendente di II grado (nipoti), linea collaterale di I grado (fratelli);

III grado: linea retta ascendente di III grado (bisnonni), linea retta discendente di III grado (bisnipoti), linea collaterale ascendente di II grado (zii paterni e materni), linea collaterale discendente di II grado (nipoti figli di fratello);

IV grado: linea retta ascendente di IV grado (trisnonni), linea retta discendente di IV grado (trisnipoti), linea collaterale ascendente di III grado (prozii), linea collaterale discendente di III grado (pronipoti e cugini);

V grado: linea retta ascendente di V grado (quadrisavoli), linea retta discendente di V grado (quadrisnipoti), linea collaterale ascendente di IV grado (pro-prozii e cugini dei genitori), linea collaterale discendente di IV grado (pro-pronipoti e figli dei cugini);

VI grado: linea ascendente di VI grado (quintisavi), linea discendente di VI grado (quintisnipoti), linea collaterale ascendente di V grado (pro-pro-prozii e cugini dei nonni), linea collaterale discendente di V grado (nipoti dei pronipoti, e nipoti dei cugini).

“Nella linea retta si computano altrettanti gradi quante sono le generazioni, escluso lo stipite.  Nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni, salendo da uno dei parenti fino allo stipite comune e da questo discendendo all'altro parente, sempre restando escluso lo stipite”. (Art. 76 C.C.).

La legge non riconosce altri vincoli di parentela (il VII grado e oltre), salvo che per alcuni effetti determinati (art. 77 C.C.).

 

Affini

Gli affini, per il codice civile italiano, sono i parenti del coniuge. Il grado di parentela è lo stesso del coniuge. Ad es. il padre della moglie è affine di I grado, il fratello del coniuge è affine di II grado.

“Nella linea e nel grado in cui taluno è parente d'uno dei due coniugi, egli è affine dell'altro coniuge.  L'affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati (434). Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all'art. 87, n. 4.” (Art. 78 Cod.Civ.).

 

Alcuni segnali di recupero del modello familiare nel diritto pubblico

Pur tra le mille difficoltà che vivono le famiglie, oggi l’istituto familiare sembra essere oggetto almeno in apparenza, di una rinnovata attenzione da parte del legislatore. Oggi, forse anche alla luce dei guasti prodotti da varie ideologie e dai crescenti costi sociali riconducibili alla crisi delle relazioni interpersonali, la famiglia sta ridiventando soggetto riconosciuto delle politiche sociali.

Il graduale riconoscimento del Terzo settore (riforme inizi anni ’90: associazioni di volontariato, l. n. 266/1991; cooperative sociali, l. n. 381/1991; ONLUS, d.lgs. n. 460/1997), l’affermazione del principio di sussidiarietà in senso orizzontale nel quadro del potenziamento delle attribuzioni delle Regioni e degli enti locali (l. cost. n. 3/2001) e, sul piano della finanza pubblica, i maggiori vincoli derivanti dalla partecipazione dell’Italia all’unione monetaria europea, hanno posto le premesse per nuove prospettive di sviluppo delle politiche familiari.

Nelle funzioni tradizionalmente proprie (educazione, assistenza e cura, dialogo intergenerazionale) la famiglia, a differenza del passato, appare sempre più come una risorsa e un bene da tutelare, e sempre più lo sarà in futuro, in un mercato globale nel quale la competizione tra sistemi economici nazionali imporrà un progressivo contenimento della spesa sociale.

Si tratta di un’evoluzione del ruolo della famiglia nel diritto pubblico che emerge gradualmente in importanti leggi nazionali di sistema (riforma dei servizi sociali, l. n. 328/2000; legge sulla parità scolastica, l. n. 62/2000; ricongiungimenti familiari, d.lgs. n. 286/1998; riforma dell’adozione, l. n. 149/2001; riconoscimento degli oratori, l. n. 206/2003), ma che tende poi a svilupparsi soprattutto nelle legislazioni regionali, ove la famiglia, fatta oggetto di esplicita promozione e sostegno in alcuni statuti regionali, sembra recuperare un ruolo crescente all’interno delle politiche sociali anche se in un’accezione che mira talora a ricomprendere in essa anche altre realtà di convivenza, poste sullo stesso piano della medesima, privilegiando di essa la funzione di stabilizzazione sociale piuttosto che quella,  prefigurata dalla Costituzione, di crescita della persona in un contesto stabile di complementarietà affettiva e di solidarietà intergenerazionale.

Siamo arrivati al paradosso che quegli stessi che trent’anni fa pronosticavano a breve la scomparsa dell’istituto familiare, oggi reclamano addirittura l’estensione del suo regime giuridico, in realtà dei suoi soli benefici, a nuove forme di convivenza che nulla hanno a che fare con essa. Tutto ciò è contraddittorio e rischia di generare confusione, ma in qualche modo è anche la migliore conferma della tenuta di un modello sociale che, nonostante l’immobilismo e anzi i colpi inferti nel passato dal legislatore (divorzio, aborto), mostra una capacità di resistenza che non è più possibile non attribuire alla sua effettiva rispondenza ai bisogni dell’uomo e della società.

 

Recenti modifiche normative

Il Dlgs 154/2013 , intitolato “alla revisione delle disposizioni sulla filiazione” , attua la legge delega  219/2012 ed equipara la posizione dei figli nati fuori dal matrimonio a quella dei figli nati nel matrimonio. Scompare il figlio naturale dal 7 febbraio 2014 con la riforma del diritto di famiglia diventata operativa. Un solo tipo di figlio, dunque, anziché due; un solo regime giuridico e niente disparità di trattamento nelle successioni.

Contenuti normativi :

-        parità dei figli, senza possibilità di commutazione ( successione legittima);

-        abrogato il diritto per i figli nati nel matrimonio di monetizzare la parte spettante i figli nati fuori  dal matrimonio (commutazione);

-        per i figli nati fuori dal matrimonio il termine di dieci anni scatta dal passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione (prescrizione diritto di accettazione dell’eredità);

-        l’amministrazione dei beni spetta sia al padre che alla madre (eredi nascituri);

-        eliminato il termine di due anni nel caso di sopravvenienza di figli nati fuori dal matrimonio (revocazione donazione);

-        spetta un vitalizio (figli non riconoscibili);

-        il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio (paternità);

-        unico status di figlioin sostituzione del duplice regime - figlio legittimo e figlio naturale - (filiazione);

-        addio alla potestà : subentra la responsabilità genitoriale a carico di entrambi i genitori(responsabilità genitoriale/1);

-        stesse regole sulla responsabilità genitoriale sia a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio sia a seguito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio (separazione);

-        codificato il diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni (nonni/1);

-        in caso di ostruzionismo, il nonno potrà anche ricorrere al giudice per farsi valere (nonni/2);

-        il minore va ascoltato nel processo che lo riguarda, anche nella scelta del tutore (minore nel processo/1);

-        si prevede l’ascolto del minore che abbia compiuto dodici anni e anche di età inferiore  se capace di discernimento (minore nel processo/2);

-        sono equiparati ai minorenni ai fini del contributo di mantenimento (figli maggiorenni portatori di handicap);

-        il giudice segnala ai comuni le situazioni di indigenza di nuclei familiari che richiedono interventi di sostegno per consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia (nuclei di non abbienti).

 

Con il decreto legislativo 154/2013 (come già accennato precedentemente, in attuazione della delega contenuta all'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) è portata a compimento la più radicale modifica del diritto di famiglia successiva alla legge 19 maggio 1975, n. 151. Peraltro attualmente la novella è circoscritta allo specifico tema della filiazione.

 

Lo stesso decreto legislativo integra le modifiche già introdotte al primo libro del codice civile dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219.

Pur se non mancano disposizioni aventi un indubbio carattere innovativo (e, per le quali, pertanto, all'articolo 104 il decreto in commento detta la disciplina intertemporale) nella maggioranza di casi le modifiche apportate, al codice come alle altre leggi, dal decreto in esame sono meramente lessicali.

Come nel 1975 si volle, da un lato, rendere il diritto di famiglia più adeguato alle nuove realtà sociali del secolo ventesimo che stava tramontando e, dall'altro, estirpare dal linguaggio giuridico parole ritenute non in armonia con i nuovi tempi (quali, ad esempio, «illegittimo», «adulterino», «patria potestà» ecc.) così nel 2013 il legislatore ha inteso non solo eliminare ogni residua discriminazione tra i figli, ma anche rendere più «moderno» il vocabolario, eliminando, riferiti ai figli (e al rapporto di filiazione) i termini «legittimo» e «naturale».

 

 

Essendo - peraltro - ineliminabile (almeno al momento) in linea di fatto che la nascita possa, alternativamente, avvenire in costanza di matrimonio o al di fuori di questo, si sono sostituite - ogni qualvolta la circostanza fosse rilevante - le parole «figlio legittimo», «figlio naturale» con le parole «figlio nato nel matrimonio», «figlio nato fuori del matrimonio».

Contemporaneamente si è ritenuto antiquata la definizione dei rapporti tra genitori e figli in termini di «potestà genitoriale».

Nel concetto di «potestà» è insito - come noto - il potere di disporre, di dirigere l'altrui attività e, quindi è ineliminabile, dallo stesso, una connotazione di «subordinazione» del soggetto in potestate rispetto all'altro (al genitore).

Diversamente la locuzione «responsabilità» designa - piuttosto - sia una qualità di un soggetto (cioè la capacità che si attribuisce a un soggetto di essere in grado e perciò di dover dare risposta a causa dei suoi comportamenti, o comunque di un fatto a lui ricollegabile secondo criteri accertati) sia il processo che si sta svolgendo in forza di tale qualità (sulla questione, cfr. Rescigno G.U., «Responsabilità» (diritto costituzionale), in «Enciclopedia diritto, XXXIX, Milano 1988, p. 1342).

Affermando, pertanto, che «i genitori hanno la responsabilità genitoriale» si ribadisce che si è - in realtà - a fronte di un rapporto assolutamente «paritario».

Con obblighi - peraltro - prevalentemente a carico dei genitori.

Come si ricava - del resto - dalla circostanza che a fronte dei tantissimi diritti spettanti al figlio, analiticamente descritti nei primi tre commi dell'articolo 315-bis Cc, il quarto comma di tale articolo dispone unicamente il dovere, per il figlio, di «rispettare i genitori» e di «contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa».

 

 

Altre modifiche - pur esse meramente formali - ancora, si sono rese necessarie in conseguenza della abrogazione (da parte dell'articolo 1, comma 10, della legge n. 219 del 2012) dell'istituto della legittimazione.

In più occasioni, infine, il decreto ha (singolarmente) ritenuto di modificare norme già modificate, totalmente trascurando il precetto di cui all'articolo 1, comma 11, della legge 10 dicembre 2012, n. 219.

Tale ultimo comma dispone, testualmente: nel codice civile, le parole «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente «figli».

Certo quanto sopra è palese che tutte le volte in cui il decreto in commento ha «sostituito» le parole figli legittimi, figli naturali con la parola figli lo stesso non ha fatto che ribadire - del tutto inutilmente e secondo una pessima tecnica legislativa - una modifica già esistente nel nostro corpus normativo (e del resto già puntualmente recepita nei più autorevoli codici pubblicati successivamente all'entrata in vigore della legge n. 219).

 

La Legge 219/2012 , in vigore dal 1° gennaio 2013, ha riscritto l’art. 74 del codice civile, precisando la nozione di “parentela”. Infatti, se il vecchio testo dell’art.74 si limitava a prevedere che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, dall’anno scorso la norma precisa che il concetto si applica “sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo”. Mentre il vincolo di parentela “non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età”.

 

Un tema che invece la riforma della filiazione naturale non tocca è quello della successione tra fratelli , nel caso in cui uno di essi sia nato nel matrimonio  del genitore defunto e l’altro invece sia nato al di fuori del matrimonio del defunto stesso. Con la riforma , quelli che anteriormente erano fratelli naturali e che ereditavano prima dello Stato e solo dopo i parenti di sesto grado, ora invece ottengono una consistente “promozione” , venendo ad essere eredi al grado dei collaterali “legittimi”, e quindi al secondo grado. Di conseguenza , ora  la presenza di fratelli naturali comprime le quote concorrenti dell’eventuale coniuge superstite, degli eventuali ascendenti e di eventuali altri fratelli del defunto ed esclude la chiamata all’eredità dei parenti di grado ulteriore rispetto al grado dei fratelli del defunto.

 

Norme  che intervengono nel Pubblico Impiego

 

- Congedi per cause particolari e per gravi motivi familiari

Oltre ai permessi lavorativi e ai congedi retribuiti, la normativa italiana ha previsto, in tempi relativamente recenti, altre forme di agevolazione per il lavoratore.

La Legge 8 marzo 2000, n. 53 prevede, all'articolo 4, la concessione di congedi per cause particolari che interessano la generalità dei lavoratori, non solo quindi quelli che assistono un familiare con handicap grave.

Il Ministero  della Solidarietà Sociale, con Decreto 278 del 21 luglio 2000, ha precisato le modalità di accesso e fruizione di questi congedi.

Le forme di flessibilità previste sono due: i permessi retribuiti per il decesso o grave infermità di un familiare; i congedi non retribuiti per gravi motivi familiari.

 

- I permessi per decesso

I tre giorni di permesso retribuito all'anno, per evento (CCNL 29/11/2007 art. 15 comma 2)  sono previsti nel caso di decesso  infermità del coniuge, anche se legalmente separato, del parente entro il secondo grado, anche non convivente. I tre giorni di permesso sono concessi anche nel caso in cui il decesso riguardi un componente della famiglia anagrafica, quindi anche nell'ipotesi della famiglia di fatto.

Nei giorni di permesso non sono considerati i giorni festivi o non lavorativi e sono cumulabili con quelli concessi ai sensi dell'articolo 33 della Legge 104/1992 (lavoratori disabili e familiari di persone con handicap grave).

I giorni di permesso devono essere utilizzati entro sette giorni dal decesso.

È possibile concordare con il datore di lavoro la fruizione dei tre giorni di permesso in modo articolato o frazionato.

I permessi per gravi motivi familiari

Sono previsti tre giorni di permesso  retribuito nell’arco di un anno. Per ottenere questi permessi è necessario presentare, per la grave infermità, documentazione rilasciata da un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionato, dal medico di medicina generale oppure dal pediatra di libera scelta; la documentazione va presentata entro cinque giorni dalla ripresa del lavoro. Il datore di lavoro può richiedere periodicamente la verifica dell'effettiva gravità della patologia.

I tre giorni l'anno sono relativi al lavoratore e non ai familiari cui si riferisce il permesso. Pertanto, ad esempio, se nel corso dello stesso anno un lavoratore si trova a dover affrontare due situazioni di grave infermità di due diversi parenti, avrà comunque diritto a tre sole giornate di permesso.

retribuito .

I gravi motivi devono riguardare i soggetti di cui all'articolo 433 del Codice Civile (coniuge, figli legittimi, legittimati, adottivi, genitori, generi e nuore, suoceri, fratelli e sorelle) anche non conviventi, nonché i portatori di handicap parenti o affini entro il terzo grado. Anche in questo caso il congedo può essere richiesto anche per i componenti della famiglia anagrafica indipendentemente dal grado di parentela, ammettendo quindi anche la famiglia di fatto.

Fra i gravi motivi il Decreto Ministeriale 278/2000 elenca le necessità familiari derivanti da una serie di cause. E cioè:

a)     necessità derivanti dal decesso di un familiare;

b)    situazioni che comportano un impegno particolare del dipendente o della propria famiglia nella cura o nell'assistenza di familiari;

c)     situazioni di grave disagio personale, ad esclusione della malattia, nelle quali incorra il dipendente medesimo.

Sono inoltre considerate "gravi motivi" le situazioni, escluse quelle che riguardano direttamente il lavoratore richiedente, derivanti dalle seguenti patologie: 1. patologie acute o croniche che determinano temporanea o permanente riduzione o perdita dell'autonomia personale, ivi incluse le affezioni croniche di natura congenita, reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica, post-traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica, derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a riacutizzazioni periodiche; 2. patologie acute o croniche che richiedono assistenza continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e strumentali; 3. patologie acute o croniche che richiedono la partecipazione attiva del familiare nel trattamento sanitario; 4. patologie dell'infanzia e dell'età evolutiva per le quali il programma terapeutico e riabilitativo richieda il coinvolgimento dei genitori o del soggetto che esercita la potestà.

Questo congedo (anche frazionato) può essere richiesto anche per il decesso di un familiare nel caso in cui il lavoratore non abbia la possibilità di usufruire dei permessi di tre giorni in quell'anno (per esempio perché ne ha già usufruito).

La documentazione relativa alle patologie viene rilasciata da un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionato, dal medico di medicina generale (medico di famiglia) oppure dal pediatra di libera scelta. La documentazione va presentata contestualmente alla richiesta di congedo.

Entro 10 giorni dalla richiesta del congedo, il datore di lavoro è tenuto ad esprimersi sulla stessa e a comunicarne l'esito al dipendente.

L'eventuale diniego, o la proposta di rinvio a un periodo successivo e determinato, o la concessione parziale del congedo, devono essere motivati in relazione alle condizioni previste dal Decreto Ministeriale 278/2000e da ragioni organizzative e produttive che non consentono la sostituzione del dipendente. Su richiesta del dipendente, la domanda deve essere riesaminata nei successivi 20 giorni.

Il Decreto prevede che i singoli Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro che si andranno a definire disciplinino i procedimenti di richiesta e di concessione dei permessi.

Alla conclusione del congedo il lavoratore ha diritto a riprendere il suo posto e la sua mansione. Il lavoratore inoltre può rientrare anche anticipatamente al lavoro dandone preventiva comunicazione all'azienda.

 

Congedo  Straordinario Biennale per assistenza ai  familiari diversamente abili

I congedi retribuiti biennali sono definiti inizialmente dalla Legge 388/2000 (articolo 80, comma 2, poi ripreso dall’articolo 42, comma 5 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151) che ha integrato le disposizioni previste dalla Legge 53/2000 introducendo l'opportunità, per i genitori di persone con handicap grave, di usufruire di due anni di congedo retribuito. Medesima opportunità veniva offerta ai lavoratori conviventi con il fratello o sorella con handicap grave a condizione che entrambi i genitori fossero “scomparsi”. Successivamente, la Corte Costituzionale ha riconosciuto varie eccezioni di legittimità costituzionale che hanno ampliato la platea degli aventi diritto.

Da ultimo, tuttavia, il Decreto Legislativo del 18 luglio 2011, n. 119 ha profondamente rivisto la disciplina dei congedi retribuiti di ventiquattro mesi, in particolare per quanto riguarda gli aventi diritto e le modalità di accesso all’agevolazione.

Il Decreto Legislativo 119/2011, pur confermando i beneficiari potenziali (coniuge, genitori, figli, fratelli e sorelle) previsti dalla normativa e dalla giurisprudenza precedente, fissa condizioni diverse di priorità nell’accesso ai congedi.

Successivamente la Sentenza 18 luglio 2013, n. 203 ha ulteriormente modificato la platea dei beneficiari, ammettendo, in casi particolari, al beneficio anche i parenti ed affini fino al terzo grado.

L’ordine di priorità è: coniuge, genitori, figli, fratelli e sorelle. Rimane ferma la condizione dell’assenza di ricovero con le eccezioni che vedremo in seguito.

Il primo beneficiario è, quindi, il coniuge convivente con la persona gravemente disabile.

In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, ha diritto a fruire del congedo il padre o la madre anche adottivi (anche se non conviventi con il figlio). Da far rilevare che non viene previsto alcun limite di età di chi dovrebbe assistere il disabile.

In caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del «padre e della madre» (nel testo è usata la formula congiuntiva “e”, non quella disgiuntiva “o”), anche adottivi, ha diritto a fruire del congedo uno dei figli conviventi.

Se anche i figli conviventi sono deceduti, mancanti o invalidi, il beneficio passa ad uno dei fratelli o delle sorelle conviventi.

In caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti anche dei fratelli o delle sorelle, il diritto al congedo passa a parenti e affini, comunque conviventi, fino al terzo grado.

Nella sostanza parenti e affini fino al terzo grado possono fruire dei congedi solo se gli altri parenti più prossimi (figli, genitori, fratelli) o il coniuge sono mancanti, deceduti o anch’essi invalidi.

Anche nel caso della concessione dei congedi retribuiti di due anni, come nel caso dei permessi lavorativi (art. 33, Legge 104/1992), la condizione essenziale è che il disabile sia stato accertato persona con handicap in situazione di gravità (articolo 3, comma 3 della Legge 104/1992).

Non sono ammesse, a parte per i grandi invalidi di guerra e i soggetti con sindrome di Down, certificazioni di altro genere quali ad esempio il certificato di invalidità totale con diritto all'indennità di accompagnamento o frequenza.

Chi non dispone del certificato di handicap deve attivare la procedura di accertamento presentando domanda all’INPS e presentandosi poi a visita presso la Commissione della propria Azienda Usl di residenza.

Se questo accertamento riconoscerà l’handicap grave (articolo 3, comma 3 della Legge 104/1992) si potranno richiedere i congedi retribuiti di due anni qualora ricorrano anche le altre condizioni previste.

Va anche ricordato che, nel caso il certificato di handicap grave venga revocato nel corso del congedo retribuito, il beneficio decade immediatamente. Così pure, il congedo non può essere concesso per un periodo che superi l’eventuale termine di validità dello stesso certificato di handicap. In entrambi i casi, infatti, manca il requisito principale per la fruizione del congedo.

L’articolo 42, comma 5 ter del Decreto Legislativo n. 151/2001 prevede che durante il periodo di congedo, il richiedente ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento (precisazione introdotta dal Decreto 119/2011). Il periodo di congedo è coperto da contribuzione figurativa.

 

Lì, 10.02.2014

Giuseppina Filippelli                                                                                   Sabato Simonetti

 

Fonti della ricerca:

Siti Internet: www.handylex.org; www.wikipedia.it; www.jus.unitn.it; www.altrodiritto.unifi.it; www.ilsole24ore.com; www.italiaoggi.it.

Testi consultati: “La famiglia nell’Ordinamento Italiano” del Prof. Paolo Cavana.

 

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